Ed eravamo contenti … di Salvatore Trotta

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Io. Rodolfo, il più giovane della compagnia e tanti altri, facciamo parte di una generazione che ha conosciuto gli effetti nefasti della fine della guerra. Questa mia rievocazione di quegli anni vuole essere un omaggio a tanti nostri coetanei, a tanti amici d’infanzia e di giovinezza. Quasi tutti emigrarono giovanissimi, in cerca di un futuro migliore. Alcuni sono tornati a vivere nel paese natio ma tanti sono ancora sparsi per il mondo. Molti altri, purtroppo, non ci sono più.

Tra noi c’era un’amicizia sincera, un’amicizia profonda al di là delle diverse condizioni sociali, allora ci si divertiva con poco, con giochi semplici, perlopiù costruiti o inventati da noi.

I nostri primi giochi erano: ai quattro cantoni ed il nostro luogo d’incontro era lo spiazzo antistante  l’attuale forno San Giorgio.

Altri giochi erano: nascondino ( jann cióc ), la lippa ( mazz e llìcch ),il cerchio    (usando il cerchione della bicicletta ), la trottola ( u curl ) ….

Le scuole elementari erano tutte concentrate nelle aule dell’ex convento dei cappuccini attiguo alla chiesa di S. Antonio.   D’inverno, quando la temperatura era piuttosto rigida, andavamo a scuola portando, oltre al sussidiario ed al libro di lettura, un barattolo di conserva vuoto contenente della carbonella accesa che serviva per riscaldarci un po’. Del resto anche in casa, generalmente formata  da un monolocale, il riscaldamsucapanneento era costituito dal braciere (u vrascér ) posto all’interno di una pedana circolare ( u pét vrascér ). Sopra il braciere, per evitare che i più piccoli si scottassero, ma anche per asciugare i panni, c’era u sciúcapànn.

Il quartiere era il nostro punto d’ incontro, un luogo sacro ed inviolabile. Guai se qualche coetaneo estraneo osava avventurarsi. Ne scaturiva una battaglia per difenderlo, anche con le armi che avevamo costruito con materiale povero. Spade di legno riciclato, lance ricavate dalle canne del canneto, la fionda ( a frècc), u fuc’lòtt, l’arch chi frècc ( ottenuto da un pollone o da un ramo ricurvo d’ulivo).

A distanza di tempo, ora  rivediamo quei luoghi  come quelli descritti nel romanzo “ I ragazzi della via Paal “.

Uno dei giochi più praticati era quello dei bottoni; quante volte ritornavamo a casa reggendo i calzoni con le mani in quanto avevamo perduto i bottoni al gioco. A casa ci aspettavano i coloriti improperi delle mamme ( t’ pozz’na mbènn stu  ccís). Per fortuna in seguito il gioco dei bottoni fu  sostituito da quello con i tappi delle bibite ( i rutill ), e dal gioco con le prime figurine dei calciatori.

Quasi dimenticavo, da ragazzini ci recavamo dagli alleati americani, accampati nella villa comunale per farci regalare un po’ di farina lattea che serviva ad integrare la nostra alimentazione sempre carente. La frutta: more selvatiche, fichi, gelsi, uva, meloni ce la procuravamo dove capitava prestando attenzione ai contadini che non vedevano di buon occhio quelli che per loro erano cavallette.

Nella villa comunale andavamo con le fionde a caccia dei passerotti che servivano per impreziosire il magro ragù domenicale. Quando d’inverno c’era la neve, mettevamo le trappole (crost’l) per catturare gli uccelli più grandi.

Non scandalizzatevi ora, ma in quei tempi, era il dopoguerra, per i meno abbienti non era un gioco crudele, ma una necessità.  La cattura delle talpe ( tubbanèr), che portavamo al farmacista ci serviva per avere in cambio, come ricompensa, le caramelle e usando la loro carta confezionavamo i braccialetti da regalare alle ragazzine.

Per procacciarci i soldi per il cinema andavamo a spigolare “ciapp’r’jà” le poche olive cadute  rimaste per terra dopo la raccolta. Spesso però trovavamo più conveniente    – ciapp’r’jà  ‘o  car’ch – ( Eufemismo per dire che andavamo a rubare le olive dagli alberi carichi, cioè non ancora sottoposti a raccolta )

I primi film, perlopiù western (tommix) li vedevamo nei due cinema del paese: da P’zz’chìll ( ‘o Cin’m vecchj ) oppure  ‘o Cin’m nov ( i Tatà ). Il Cinema Delle Vergini non c’era ancora.   Ci si andava tutti assieme, quelli della combriccola, muniti di “cupp’tèll d’ lupín salèt”; le bucce le sputavamo facendo a gara a chi le lanciava più lontano. I posti più ambiti erano quelli vicini allo schermo oppure a terra proprio sotto di esso. Quando apparvero i primi cinemascope a Torremaggiore da Ciardulli o al cinema Marchitto di San Severo andavamo in due per ogni bici e col lume a petrolio per il ritorno alla sera. seguendo vie secondarie per sfuggire alla polizia, che con le  motociclette, al cui telaio era attaccato il moschetto, ci incuteva  terrore. Fino agli inizi degli anni sessanta il termine dialettale per definire la Polizia era “ a m’lizj”.  Poi cominciò ad essere usato il termine “ a pul’zij”.

Naturalmente per andare tutti assieme al cinema raccoglievamo gli spiccioli di tutti e se questi non bastavano rinunciavamo tutti.

I primi film a colori in cinemascope erano a carattere storico: La tunica, Quo vadis, I gladiatori…

Passavano gli anni, le prime scampagnate con gli amici, le cenette nella canonica della chiesa di San Paolo  o al frantoio di Iannaccone “basc Tormaggiór”, i primi innamoramenti giovanili. La domenica o alle feste tutta la nostra  combriccola si recava in chiesa a cantare la santa messa in gregoriano e la ricompensa spesso consisteva in una bottiglia di rosolio per schiarire la voce, che ci veniva offerta da una anziana santocchj.

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